Certificazione di qualità obbligatoria nella vigilanza privata: difetto genetico?

Torna a far parlare di sè il nostro Bastiancontrario, scatenando nuove reazioni e lettere al Direttore. E’ la volta di Maria Cristina Urbano, Presidente di ASSIV, che riapre il tema della certificazione nella vigilanza privata – di per sè un unicum per il solo fatto di essere imposta, dunque lontana da quella finalità di miglioramento continuo che sta alla base delle certificazioni di qualità. Un difetto genetico che si è accompagnato, in questi anni, alla mancanza di una guida costante del Ministero dell’Interno, che ha spesso portato il circolo della certificazione da virtuoso – almeno sulla carta – a diventare vizioso.

Carissimo Bastiancontrario,

la seguo sempre con grande piacere, e a volte con sincero divertimento, quindi, poiché sono sicura non si riferisca a me quando modestamente si rivolge al suo unico lettore, sappia che oggi ne ha perlomeno il doppio!

E veniamo al doloroso tema della certificazione obbligatoria per gli istituti di vigilanza.
Già il fatto che una “certificazione di qualità” da volontaria divenga cogente, rappresenta un’anomalia, ma tant’è: è inutile rivangare la storia che ha portato, per un giusto fine, quello della riforma del settore della vigilanza privata, ad usare un veicolo che serviva ad altro.
E sappiamo bene quanto sia stato difficile, anche per gli Enti di certificazione, ricondurre il contenuto del DM 269/2010 dentro il vestito della UNI 10891.

Forse proprio in questo difetto di nascita va ricercato l’eccessivo formalismo degli Enti in sede di verifica di conformità, ed il rigore di Accredia nei confronti del lavoro degli Enti stessi. Infatti in questo caso si perde di vista il famoso ciclo di Deming, che prevede sì il controllo, ma ha come finalità il miglioramento continuo, eclissandolo sotto le attività di verifica del rispetto di regole e requisiti cogenti, che possono non aver nulla a che fare con il miglioramento aziendale, declinato in termini di qualità del prodotto, soddisfazione del cliente, incremento della produttività. Tutti temi dove l’apporto consulenziale dell’Ente di certificazione è sicuramente determinante.

Ha ragione, caro Bastiancontrario, quando dice che il meccanismo Ente di Certificazione che controlla l’Istituto e Accredia che controlla l’Ente stritola l’Istituto mettendolo in situazioni a volte paradossali e di difficilissima uscita, ma credo che al fondo vi sia un unico gigantesco problema che imprigiona tutti (istituti di vigilanza, enti di certificazione ed Accredia stessa): la mancanza di una guida costante e partecipe da parte del Ministero dell’Interno, che attraverso i suoi autorevoli interventi non solo nei confronti di Accredia, ma anche di UNI, nonché laddove occorresse (e occorre, occorre spesso) con azioni nei confronti delle Prefetture, riconducesse il sistema a quel circolo virtuoso così ben lumeggiato in fondo all’articolo, così che ognuno possa riprendere, serenamente, il suo posto.

Fonte Vigilanzaprivataonline