Security in eventi e movida: servono più tutele

Torniamo su un tema molto discusso: chi deve occuparsi di security negli eventi e nei locali? Gli addetti ai servizi di controllo? La vigilanza privata? Entrambi? Ovviamente ognuno tira l’acqua al suo mulino e, tra reciproche accuse di invasione di campo, si perde di vista la realtà. Che non è che qualcuno vuol fare cose che non può fare, ma che è costretto a farle senza riconoscimento né tutele adeguate, e questo vale per entrambe le figure. Ce lo ricorda River Agnoletto, Field Security Coordinator esperto in Risk Management per eventi e locali. E suggerisce, dato che ci siamo, di riconoscere anche il bodyguard, uscendo dall’ipocrisia di una norma che ad oggi relega la sicurezza della persona alle FFOO, con l’unico risultato di alimentare il sommerso.

Caro Direttore

operando da anni sia come coordinatore operativo che come operatore sul campo, in ambiti che spaziano dalla sicurezza privata alla vigilanza, dal controllo eventi ai servizi di ronda e piantonamento, ritengo che il punto critico emerso dagli articoli sul tema non sia tanto la competenza “formale” tra chi può fare cosa, ma piuttosto la distanza tra la norma e la realtà quotidiana.

La dura realtà della strada
Chi lavora in strada sa che spesso gli operatori della sicurezza – siano essi guardie giurate, ASC o addetti a servizi di presidio – si trovano a gestire situazioni complesse, pericolose, in cui la reattività è fondamentale per garantire l’incolumità non solo di chi frequenta i locali o gli eventi, ma anche di chi vive o lavora nelle aree presidiate. Parlo di episodi sempre più frequenti, in particolare nelle grandi città o in contesti stagionali come Jesolo, dove piccoli gruppi organizzati o baby gang creano criticità reali. In questi casi, le forze dell’ordine non sempre riescono ad intervenire tempestivamente o con la continuità necessaria, e troppo spesso, quando intervengono, si assiste a una forma di “scarico di responsabilità” sull’operatore che ha provato a contenere l’emergenza.

Scarico di responsabilità
Questo meccanismo porta a un duplice danno: da una parte l’operatore si sente esposto e poco tutelato, dall’altra chi organizza gli eventi, gestisce i locali o affida incarichi di vigilanza tende a minimizzare o addirittura a scoraggiare l’intervento, per evitare chiusure o sanzioni da parte della Prefettura. Il rischio è che si torni a un’autogestione silenziosa dei problemi, dove chi dovrebbe agire si limita ad “assistere” per paura di conseguenze. Credo che sia il momento di affrontare questo vuoto normativo e culturale con lucidità.

Serve riconoscimento
Il nostro settore, oggi più che mai, ha bisogno di essere riconosciuto per quello che fa realmente, non per quello che “dovrebbe” essere secondo schemi ormai superati. In molti paesi europei, alcune mansioni operative sono già in parte delegate a figure certificate, che svolgono un primo presidio in sinergia con le forze pubbliche. Non è un’invasione di campo, ma una presa d’atto della complessità della realtà. Il problema non è che la vigilanza privata “pretende” di fare cose che non può fare. Il problema è che le fa già, perché la realtà le impone, e spesso le fa bene, ma senza gli strumenti e il riconoscimento adeguati. Non servono nuove etichette: serve formazione concreta, responsabilizzazione e chiarezza di ruoli. Solo così potremo uscire da questa sterile “guerra tra poveri” che, come sottolineato in questi articoli, non fa altro che indebolire l’intero comparto.

Close Protection Officer
A questo proposito, solleverei anche un ulteriore tema che meriterebbe attenzione seria e concreta: in un’epoca in cui aumenta la richiesta di servizi di accompagnamento e tutela personale in contesti privati, aziendali e internazionali, sarebbe ora di valutare anche in Italia l’introduzione ufficiale del ruolo di CPO (Close Protection Officer), oggi di fatto impedito da un impianto normativo che affida la sicurezza della persona esclusivamente alle forze di pubblica sicurezza. Un impianto forse comprensibile nel principio, ma che non tiene conto della richiesta reale del mercato e delle numerose figure già operative – spesso all’estero o in ambito diplomatico – che non possono lavorare regolarmente nel nostro Paese. È un paradosso che non fa altro che alimentare il sommerso e limitare lo sviluppo professionale di molti operatori qualificati.

In un momento in cui la sicurezza urbana, la gestione delle folle e l’ordine pubblico sono sempre più sotto pressione, abbiamo il dovere – come operatori, come coordinatori e come professionisti – di far emergere una proposta seria, credibile, basata sull’esperienza reale. E per farlo serve dialogo, non contrapposizione. Serve visione, non rivalità di categoria.

Fonte: VigilanzaPrivataOnline.com